Tags

Related Posts

Share This

Un sogno lungo una vita

I sogni e i ricordi sono quanto di più prezioso custodiamo in noi: i primi ci spingono ad affrontare il futuro, i secondi a non cancellare il passato. Su questo binomio prende avvio la delicata storia della Sognatrice di Ostenda, libro di Éric-Emmanuel Schmitt del 2008. L’adattamento teatrale andato in scena sabato 9 febbraio 2013 ha dipanato solo uno dei cinque fili che la vicenda originale intreccia, ma ha scelto quello più lirico: la rievocazione da parte dell’anziana Emma Van A. della sua giovinezza e della sua storia d’amore tanto incredibile, quanto poetica. Diversi i pregi di questa rappresentazione. Il pubblico è stato immerso fin dall’inizio in un’atmosfera rarefatta, un equilibrato gioco di luci, musiche (scelte con particolare gusto, a cominciare dal brano d’apertura del compositore torinese Ezio Bosso) e gestualità; e, soprattutto attraverso una recitazione sempre attenta e cadenzata, ha saputo tenere alta l’emozione della sala, proiettandola in una dimensione altra. Mai come questa volta i silenzi, oltre alle parole, hanno avuto un ruolo determinante nel catturare lo spettatore. L’azione procede lentamente, come in una drammaturgia wagneriana, ma a dispetto della breve durata oggettiva dello spettacolo, il tempo interiore che è stato percepito si è dilatato insospettabilmente, talché la durata è sembrata essere molto maggiore. È d’altro canto questa l’illusione operata in noi dall’atto del ricordare (tra l’altro, l’etimologia stessa della parola – ri-cordare, riportare al cuore – la riveste d’una bellezza malinconica e sublime): la durée di bergsoniana memoria, che pone l’accento sul contenuto qualitativo della vita in contrapposizione con il tempo misurato che scorre sempre uguale («Un’ora non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi»: M. Proust). In un singolo, sbiadito ricordo, ci può essere molta più vita di quanta non sembri all’esterno: questo il messaggio che è stato comunicato, come un’ostia all’altare, dal palco al pubblico dell’Esedra. Merito ascrivibile alla bravura di tutti gli attori ed ai dialoghi: essi sono meditati, non servono molte parole, se sono quelle giuste, se nessuna è lasciata al caso e se son recitate con la perizia dimostrata. Siamo in presenza di una pièce ove il taglio in atto unico cattura per la sua brevità ed incisività, e la pregnanza della recitazione prevale sull’azione scenica, limitata all’essenzialità, come la scenografia. Essa si presenta come la prolungazione di Emma, poiché i libri costituiscono l’essenza del personaggio e della vicenda, assieme ai guanti, indumento d’innegabile fascino. Notevole l’effetto in chiusura del fascio di luce proiettato su di essi, che conservano l’impronta dell’uomo amato e dell’intero passato della scontrosa signora, come la luce della sua mente, proiettata sempre e solo verso l’unico ideale scomparso.

 

Pré Catelan